MANDALA TIBETANI – I SIMBOLI DELL’ IMPERMANENZA

(di Donatella Mottoso)

Ph. Donatella Mottoso.

I Dul-Tson-Kyil–Khor (trad. lett. “mandala di polveri colorate”) non sono meri disegni originali e coloratissimi bensì le tradizioni artistiche più belle del buddismo tibetano nel cui processo di creazione confluiscono la preghiera, la pazienza e la meditazione, occasioni per sperimentare la compassione, la consapevolezza e un senso di benessere. L’insegnamento relativo alla loro realizzazione viene trasmesso attraverso una tradizione orale iniziata dal Buddha oltre 2500 anni fa.

Durante il mio soggiorno in Tibet ho avuto la possibilità di visitare il monastero buddista di Sera (nei pressi di Lhasa) e di assistere per qualche momento alla creazione di un mandala ad opera dei monaci. Qui vi racconto come vengono realizzati, attingendo un po’ ai miei ricordi e alle immagini scattate in quell’occasione, e un po’ a materiali trovati online per completare l’informazione.

Ph. Donatella Mottoso.


Il termine sanscrito mandala si riferisce al contesto spirituale che rappresenta la forma di base dell’universo, ed è quel luogo creato dal meditante dove egli contempla le divinità dopo la sua invocazione. La sua produzione richiede moltissimo tempo - settimane o mesi - e ciò dà la misura dell’immensa pazienza e laboriosità dei monaci, specialmente a fronte del destino di queste opere del venire distrutte una volta ultimate.
Il processo sottolinea e rappresenta la filosofia buddista: nulla dura per sempre.

La sua realizzazione è abitualmente a opera di quattro monaci, e comincia con una cerimonia di apertura dove essi si radunano nella sala di preghiera e intonano i mantra, termine sanscrito che indica tanto lo strumento del pensiero quanto una espressione sacra consistente nella meditazione o nella preghiera, accompagnati dal suono di flauti e tamburi. Quindi si inizia il mandala tracciando i contorni dello stesso - ovvero forme geometriche e simboli spirituali buddisti - con un gessetto su una superficie piana.




In seguito, partendo dal centro e procedendo verso l’esterno, i monaci si dispongono in modo tale da dividersi la superficie dell’opera, e iniziano a versare i granelli di sabbia utilizzando il chakpur (un piccolo imbuto metallico). L’azione del partire dall’interno per poi andare verso l’esterno simboleggia e incoraggia un’apertura, una sensibilità una conoscenza dal “sé interiore“ verso il “fuori“ e ciò può avvenire solo se si è in contatto con se stessi e con le proprie emozioni.

Ogni colore utilizzato corrisponde ad un significato ben preciso. Il bianco simboleggia il divino e l’intuizione, il rosso rappresenta il coraggio, il giallo l’intelletto. Il nero comunica la necessità di riflessione e l’azzurro rappresenta l’entità spirituale. Il verde rimanda al senso della natura e della terra. Il viola è simbolo dell’armonia. Il marrone evoca la fertilità e l’arancione rappresenta l’allegria e la soddisfazione. Prediligendo l’utilizzo di un colore piuttosto che un altro, i monaci rappresentano inoltre il proprio stato d’animo e le proprie emozioni.





A mandala ultimato, i milioni di granelli di sabbia colorata che lo compongono vengono smantellati al fine di liberare e diffondere la benedizione delle divinità contenute nell’opera nel mondo, a beneficio di tutti gli esseri viventi. La sabbia infine viene delicatamente raccolta mediante l’utilizzo di fiori o pennelli, posta in un contenitore e versata in un fiume o in un corso d’acqua, diffondendo così la gentilezza e la compassione.



La cerimonia finale sta a sottolineare ed evidenziare l’impermanenza di tutte le cose materiali e l’importanza del non attaccamento.


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