Mangiare per credere: ortoprassi culinaria nella Pasqua ortodossa greca

(di Matteo Malanca)

Nel mondo ortodosso la data della Pasqua è fissata dal calendario giuliano e non coincide con quella cattolica. Quest’anno cadrà il giorno 19 aprile. Anche se in questo 2020 tutto sarà un po’ diverso, di norma in Grecia i festeggiamenti pasquali fanno rima con agnello (un po’ meno con capretto): non è una scelta gastronomica, è un dogma culinario vero e proprio. Al di là dell’interpretazione letterale del testo evangelico secondo cui l’Agnello corrisponderebbe alla figura di Cristo, occorre segnalare che esiste, nel mondo greco, anche una credenza popolare che individuerebbe differenze psichiche e morali tra la pecora (creatura di Cristo) e la capra (creatura del Diavolo) [Detienne M., Vernant J.-P. (a cura di), “La Cucina del sacrificio in terra greca”, 2014, Bollati Boringhieri, pag. 224, nota 28].

Nel dì di festa, solo i vegani e i non-Cristiani (entrambi poco numerosi in Grecia) eviteranno di cucinare e consumare l’Aρνί, l’agnello allo spiedo. Nella confessione ortodossa per definirsi credenti non è necessario essere assidui frequentatori della chiesa e delle sue liturgie. Esiste un’ortoprassi (una corretta esecuzione di gesti), che qualifica il credente anche e soprattutto al di fuori del recinto sacro dell’edificio ecclesiastico: per effetto di ciò, lo spazio del Sacro sembra essere molto più esteso di quanto non lo sia, per esempio, nella confessione cattolica.

Anche cucinare e consumare l’Aρνί nel dehors di casa può, dunque, diventare una pratica religiosa. L’origine del rituale è stata spesso agganciata alle pratiche sacrificali dell’Ellade antica dai folcloristi greci, ma in realtà è riconducibile con maggiore sicurezza alla tradizione giudaico-cristiana e ai quotidiani costumi pastorali delle popolazioni che abitano, in generale, la penisola balcanica, piuttosto che a fantomatiche sopravvivenze culturali [Detienne e Vernant, 2014, pagg. 229-230 e 240-242]. La preparazione di questo alimento e le sue forme di consumo comportano ritualità, gesti, pratiche che sono state riconosciute anche dalla Chiesa Ortodossa e che gli stessi presbiteri non solamente rispettano, ma condividono e attuano a loro volta.

Nel 2013 festeggiai a Venezia la Pasqua ortodossa, ospite della comunità greca del Triveneto. In quell’occasione il consumo dell’agnello allo spiedo ha rappresentato un momento centrale nella celebrazione comunitaria. Il pope festeggiò con noi, invitando all’evento anche il sacerdote cattolico di rito bizantino, che aveva concelebrato la Messa ecumenica del mattino. Ricordo bene che la cura delle carni era stata tutta presa in carico dai maschi, giovani o anziani, della comunità. Alle donne, invece, erano stati demandati gli aspetti decorativi o logistici della festa.



L’anno prima, nell’isola di Lefkada, partecipai ai festeggiamenti pasquali in casa di parenti affini, zii di mia moglie. Lo zio Χρίστος dedicò tutta la mattinata di Pasqua, alzandosi alle ore 5:00, per curare la preparazione dell’Αρνί allo spiedo. Dopo averlo ripulito dalle viscere, riempito di spezie e ben aromatizzato all’esterno, lo infilzò con lo spiedo e lo lasciò riposare fino al mattino inoltrato. Ricordo che ci svegliammo con la sorpresa dell’agnello scongelato e pronto per la cottura posizionato nel salotto, ben riposto sul tavolo. Visione un po’ macabra per chi non è abituato ad assistere alla preparazione dei cibi, ma molto interessante sul piano antropologico: il corpo della “vittima” era stato preparato per il “sacrificio” pasquale e giaceva in esposizione, quasi dovesse riposare un’ultima volta prima di svolgere il suo compito finale. Si badi bene, però: il rito dell’Αρνί non si configura come pratica sacrificale, dal momento che manca la dimensione della promessa votiva, ma come semplice riproposizione domestica del rito ecclesiale.



Una volta preparato all’aperto le braci e il braciere, l’agnello fu predisposto per la cottura. Lo zio aveva anche posizionato degli spiedi minori per arrostire le viscere riempite di frattaglie, fegato e altre parti dell’agnello, ricette notoriamente consumate in occasione della Pasqua. Questi ultimi, probabilmente, erano stati preparati con la collaborazione della moglie, la zia Καλή, che si era prodigata anch’ella, ma nella cucina di casa. Il tutto era stato realizzato con estrema attenzione, cura e professionalità, perché “non esiste Pasqua senza Αρνί”.



Ricordo che lo zio Χρίστος non aveva partecipato nemmeno a un minuto di liturgia pasquale in chiesa. Ho ancora in mente l’immagine di lui al battesimo della sua prima nipote, tenutosi nel successivo mese di agosto, scalpitante fuori dall’edificio in attesa che si completasse il lungo, ma emozionante rito battesimale. Un uomo non certo “di Chiesa”, eppure credente, che esternava la propria partecipazione alla Passione e Resurrezione di Cristo attraverso una modalità tutta sua, decisamente extraecclesiale, ma non per questo priva di religiosità o definibile solamente come laica.

La pratica della cottura dell’Αρνί è un atto culinario concepito con valenza religiosa, ma anche con ritualità puramente maschili. Le donne si tengono ben lontane da bracieri e spiedi. La cottura dell’agnello in Grecia è una cosa da uomini, cosiccome strettamente maschile è la celebrazione del mistero liturgico in chiesa: forse rappresenta un ancestrale atto di manifestazione della virilità che noi uomini ribadiamo ogni qual volta ci avviciniamo a un barbecue, ma anche un meccanismo di riconferma della priorità dell’accesso al Sacro, nonché delle gerarchie e dell’orientamento dei ruoli di genere nel contesto familiare. In ormai più di dieci anni di contatto con il mondo greco, quello della cottura dell’Αρνί è l’unico momento in cui ho visto un uomo cucinare per il focolare domestico, dal momento che, solitamente, case e cucine sono il regno incontrastato delle donne.

Non so se vi sia mai capitato di assistere a una funzione ortodossa di rito bizantino: la caratterizzano non tanto la lingua greca antica, ma soprattutto il fatto che la partecipazione alla liturgia è costruita sull’ascolto e sulla visione. Il “dialogo” tra sacerdote e popolo è assente, il ruolo dei fedeli è limitato alla manifestazione della propria appartenenza, attraverso la ripetizione del segno della Croce ogni qual volta, durante la lettura dei testi sacri, sono citate le persone della Trinità o la figura della Madonna. Al di là di qualche “amen” buttato qua e là, gli unici momenti di presenza attiva del fedele sono, di fatto, la recita del Credo e del Padre Nostro. Il grosso della funzione, infatti, è rappresentato dalla recitazione cantilenata di salmi e letture e da frequenti atti di benedizione con ingenti spargimenti di incenso. Il rapporto con l’Altissimo è delegato unicamente alle figure dei presbiteri, tant’è che il mistero eucaristico si consuma segretamente, al di là delle cortine impenetrabili dell’iconostasi, che separa la navata dal santuario vero e proprio, accessibile solo ai maschi.

La struttura della Santa Messa nel mondo ortodosso è tale per cui è estremamente difficile riuscire a seguire tutta la funzione. Da ciò consegue anche una differente accessibilità al Sacro, che non è unicamente legata alla predisposizione interiore. Di fatto, si partecipa a livelli differenti. Tutto concorre a costruire una distanza, una struttura della credenza, del rapporto col Sacro, che veicola una relazione di sudditanza, inevitabilmente, anche nella società: la Chiesa gioca un ruolo importante nell’indirizzo delle politiche nel mondo greco ed è sempre tenuta in alta considerazione qualora si debba decidere in tema di etica, morale familiare e pubblica. Non è un corpo parallelo allo Stato laico, come avviene in genere nei Paesi di confessione protestante e non è nemmeno uno Stato nello Stato, come avviene in quelli di orientamento cattolico, bensì una forza che ha stretto un compromesso storico con le istituzioni civili nel momento genetico dello Stato neogreco, sulla scia della visione cesaropapista degli imperatori bizantini. E che conferma, tra le altre cose, anche i rapporti di forza tra generi.

Ma se, come accade nel contesto greco contemporaneo, clero e istituzioni di comune accordo governano sulla cittadinanza e sulla massa dei fedeli, determinandone le posizioni, ai credenti comuni quale margine di autonomia rimane nel legame col Sacro?

Per effetto di quella che gli antropologi chiamano agentività (“agency”), la fede si manifesta in tutta una serie di riti, gesti, pratiche, che coinvolgono e rendono fruibile, tangibile il Sacro, altrimenti troppo lontano per essere ritenuto credibile. Pratiche e riti compiuti letteralmente fuori dallo spazio fisico della chiesa, sono numerosi e comunemente incorporati nel novero dei riti riconosciuti dalla Chiesa. Alcuni possono assomigliare a veri e propri atti apotropaici, ma la Chiesa ortodossa non si oppone alla creatività in materia di espressione della fede, purché in tali riti non si mettano in discussione dogmi e posizioni gerarchiche. Potrebbe stupire questo coinvolgimento di realtà concrete in una confessione profondamente convinta del primato dello spirituale sul materiale, ma, la spiegazione di tale relazione ricade, sul piano dogmatico, nel mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, quindi nell’assunzione della materia creata da parte del Principio creatore a un livello ontologico superiore [Morini E., “Gli ortodossi”, 2002, Bologna, Il Mulino, pagg. 115-116].

Nell’Ortodossia greca, dunque, anche l’esercizio di una pratica rituale extraecclesiale come la cottura dell’Αρνί è innanzitutto una rivendicazione di appartenenza a una comunità spirituale (quella ortodossa di rito bizantino) che ha una ricaduta di carattere politico-sociale, ma anche religioso individuale. Senza l’osservanza di una certa ortoprassi, la religiosità non risulterebbe agita, ma solo subita. Il credente, così, perpetuando certi gesti, avoca a sé un ruolo nella relazione col Sacro, che altrimenti rimarrebbe nelle mani di un’élite di mediatori, i presbiteri, senza giungere mai al cuore e alle menti della gente comune.

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