MASTÌCHA: UN SUPERFOOD DALL'ANTICHITÀ

di Matteo Malanca

Immaginate di trovarvi su un’isola dell’Egeo orientale e di perlustrarne l’entroterra non molto distanti dalla costa, sferzati dal vento, attorniati dalla macchia mediterranea: camminando tra cisti e rosmarini, piante di capperi e pini marittimi, molto facilmente vi imbattereste in un arbusto sempreverde, simile al mirto e parente stretto del terebinto. Cresce in tutto il bacino del Mare Nostrum. In Sardegna ne hanno utilizzato le drupe fino al XX secolo per estrarne un olio lampante dalle spiccate proprietà aromatiche, ma è solo nella porzione meridionale dell’isola di Chìos, a nove di miglia dall’Asia Minore, che questa pianta ha lasciato un segno ineguagliabile nella storia della botanica e della gastronomia. Sto parlando del lentisco, un albero dalla cui corteccia trasuda una resina speciale, che i Greci, sin dall’Antichità, chiamano μαστίχα (mastìcha), ma che forse i più conosceranno col nome di “mastice di Chio”. 


Quando si dice “mastice”, comunemente si pensa alle colle impiegate un tempo dagli artigiani, dal falegname al muratore, prima dell’arrivo della chimica industriale. In effetti, è proprio così: la resina del lentisco a contatto con l’aria si rapprende, assume la forma di un cristallo, il quale, se diluito in acqua, diventa una sorta di gomma naturale, che può essere manipolata, trasformata e persino masticata, perché ha anche un ottimo sapore. Ed è dal verbo greco “masticare” (μασάω) che la mastìcha prende il proprio nome. 




Benchè a Chios esista una leggenda paleocristiana, che associa le stille di resina alle lacrime versate dalle piante per il martirio di Sant’Isidoro, le origini dello sfruttamento della risorsa risalgono all’antichità greca. La prima citazione riconducibile a questo prodotto si trova in Ippocrate, che nei suoi scritti ne consigliò l’uso sia per ottenere denti e gengive sane con lo sfregamento in bocca di un ramoscello della pianta, sia per un alito profumato masticando una goccia secreta dalla pianta. Grazie alle sue proprietà antinfiammatorie e antisettiche, pare sia un ottimo rimedio contro gengiviti, piorrea, paradontosi e alito cattivo, perché la mastìcha dona una sensazione di freschezza e di pulizia. In fitoterapia pare dimostrato che il mastice di Chio inibisca la crescita di pericolosi batteri contaminanti del cibo, quali salmonella e stafilococchi. Sembra inoltre essere in grado di arrestare la proliferazione del batterio Helicobacter pylori, responsabile dell’ulcera, ma anche di prevenire problemi digestivi e raffreddori. 

Avendone sperimentato le svariate qualità, gli abitanti dell’isola cominciarono a praticare sistematicamente incisioni sul tronco o sulle ramificazioni maggiori, che portarono alla nascita di una vera e propria produzione su ampia scala della resina, di cui possedevano letteralmente il monopolio. Sì, perché l’aspetto più stupefacente risiede proprio nel fatto che gli esemplari di lentisco capaci di produrre il mastice dalle giuste qualità organolettiche si trovano solo e unicamente in questa parte remota del globo. La singolarità non passò inosservata e un po’ tutti coloro i quali passarono di lì a imporre il proprio governo si guardarono bene dal non trarne profitto. 
Sotto il controllo romano la produzione fu finalizzata all’esportazione di olio medicinale e vino aromatico. Gli imperatori, infatti, usavano il mastice, misto a miele, pepe e uova, nella preparazione del “Conditum paradoxum”, un vino speziato che veniva servito, di solito, a fine pasto. Nel periodo bizantino si cominciò a destinarla principalmente come chewing-gum, ma soprattutto a impiegarla nel contesto culinario: a Costantinopoli divenne un ingrediente molto frequente nell’impasto del pane e delle torte, inaugurando una tradizione secolare, che inquadrò il mastice nel novero delle spezie più ricercate e amate ai quattro angoli del Mediterraneo.

Cristoforo Colombo, che ebbe modo di visitare l’isola di Chios nel 1473, nutriva la speranza di trovare nuovi siti produttivi per la mastìcha nelle terre al di là dell’Atlantico (Dalby 2003, p.44). Le caratteristiche pedologiche dell’isola, però, non trovarono mai replica in alcun angolo del pianeta, lasciando il mastice di Chios inimitabile. La loro singolarità era tale da suscitare meraviglia e attirare la curiosità dei viaggiatori europei. Nel XVII secolo, Jean Thévenot dedicò alcune pagine della sua “Relation d’un voyage fait au Levant” alla descrizione della regione di coltivazione, delle tecniche di sfruttamento adottate e delle caratteristiche del prodotto, senza risparmiare - da buon Francese - una frecciatina ai Greci, che a sua detta “dissipavano una gran quantità [di quel tesoro, NdA] masticandolo” (Duchene 2003, p.100). 
Fu così che prima l'Impero Bizantino, poi i Genovesi (che governarono l’isola per quasi tre secoli), quindi i Turchi imposero un vero e proprio controllo di Stato sulla produzione, per controllarne il commercio interno e l’esportazione. Il sultano di Costantinopoli concedette uno statuto speciale ai 24 villaggi, i cosiddetti μαστιχοχώρια, che garantivano la produzione della spezia. A Chios, durante l’impero ottomano, la mastìcha valeva il suo peso in oro e il suo furto veniva punito con la pena di morte (Pedani 2012, p.58). Persino il suo residuo di scarto, la cosiddetta garbellatura, era rimesso in vendita e valeva un quinto del prezzo della resina di lentisco di prima qualità (Freedman 2008, p.143).
Nel corso dei secoli, con l’affermarsi della scienza medica, la mastìcha cominciò a perdere il proprio credito terapeutico e quindi il suo prezzo si abbassò gradualmente a una frazione di quello che era riuscito a raggiungere nel Medioevo. Fu però dopo la Prima Guerra Mondiale, a causa della diffusione concorrenziale della menta, che la produzione di mastice entrò in declino e con essa anche la sua notorietà e il suo valore economico crollarono. Solo la costituzione di un consorzio dei produttori locali contribuì a risollevarne le sorti e il volume di produzione. 




Benchè sia poco nota a livello globale, la mastìcha rappresenta un ingrediente cardine nelle gastronomie del Levante mediterraneo. In Grecia è utilizzata per aromatizzare pani e torte rituali, dolci domestici o di pasticceria e per produrre un liquore molto apprezzato, la “Mastìcha di Chios”. Per i bambini, invece, esiste una mousse al gusto di mastìcha, impiegata nella consumazione del cosiddetto υποβρύχιο, il “sottomarino”, una sorta di lecca-lecca casereccio, da gustarsi immergendo la materia prima in un bicchiere d’acqua. 
In Turchia viene utilizzata per il dondurmà kaymàkli, una tipologia di gelato molto amato anche nell’Ellade e in Egitto dalla consistenza filante e dal sapore rinfrescante. In Libano e Siria si produce un formaggio alla mastìcha e nei paesi arabi più in generale si profumano il latte e i dolci. Una ricetta comune un po’ a tutto il Mediterraneo orientale, quella del “budino di riso”, prevederebbe, oltre allo zafferano, anche tre cristalli di mastice, per conferire maggiore corpo al piatto (Woodward 2002, p.121). Ma il suo impiego è ormai anche industriale e onnipresente nella produzione di prodotti parafarmaceutici, dentifrici, saponi, gomme da masticare…
Grazie all’e-commerce, anche il mastice è ormai facilmente reperibile in rete, con diverse formulazioni commerciali, delle quali la più importante è sicuramente il brand “mastihashop”, con cui il Consorzio dei Produttori di Chios vende, nel mondo, anche con un circuito di negozi in franchising, in ogni sua forma, quello che essi stessi definiscono “il superfood ellenico”. 


Ancora oggi come secoli or sono, l’incontro con la resina di lentisco colpisce il turista, il viaggiatore o l’osservatore consapevole, che semplicemente ama essere stupito nelle proprie esperienze gustative: “Il sapore della mastìcha è inconfondibile: è dolcemente floreale, non distante dalla mirra, con quella sensazione di pino che ci si aspetterebbe da un sempreverde” (Bakken, 2013, p.124)
Ma la cosa che più sorprende, forse, è sapere che in un’area del mondo così divisa e contrapposta come il Levante mediterraneo, un simbolo di comunanza culturale sia rappresentato da una sostanza collante.
Non è questo, in fin dei conti, anche un segno di speranza? 


Riferimenti bibliografici

- Dalby A., “Flavours of Byzantium”, 2003, Totness, Prospect Books
- Duchene H., « Le voyage en Grèce. Anthologie du Moyen Age à l’Epoque contemporaine », 2003, Paris, Ed. Robert Laffont
- Pedani M. P., “La grande cucina ottomana”, 2012, Bologna, il Mulino

- Freedman P., “Il gusto delle spezie nel Medioevo”, 2008, Bologna, il Mulino
- Woodward S., “The Ottoman Kichen”, 2002, New York, Interlink Books
- Bakken C., “Honey, Olives, Octopus. Adventures at the Greek Table”, 2013, Berkley-Los Angeles, University of Californa Press.

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