MIRABILI CAPELLI #3

di Cadigia Hassan

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Donna Antico Egitto

In Egitto, gli appartenenti a classi sociali elevate indossavano parrucche ed elaborate estensioni.
La civiltà greca ha segnato le acconciature del mondo antico, proponendo creazioni molto elaborate. Le donne sposate usavano portare lunghe trecce, come segno distintivo del loro stato civile.


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Acconciatura Grecia Antica

Nell’Impero romano le donne patrizie, nella lunga fase di ornamento dei capelli, venivano assistite da servitori o da schiave chiamate “ornatrix”. I capelli venivano arricciati con un ferro caldo e spesso si ricorreva a parrucche di vario colore, realizzate con capelli veri, provenienti dalle teste delle schiave sparse nell’immenso impero.

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S. Solomon, Toeletta di una matrona romana (1869), olio su tela, Delaware Art Museum.

In Cina le donne dedicavano particolare cura all’aspetto ornamentale dei capelli. Le chiome trasandate erano segno di malattia o depressione. Le acconciature riflettevano lo status civile, sociale, religioso e professionale di uomini e donne. I capelli umani, opportunamente tinti, venivano utilizzati come filo da ricamo per realizzare elaborate opere d’arte. La tecnica risale all’epoca della dinastia Tang (VII sec.).

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Acconciatura nell'Antica Cina
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Chonmage - Giappone
Lo chonmage, la tradizionale acconciatura maschile giapponese, veniva utilizzato in origine dai samurai per mantenere stabile l’elmo in battaglia. Oggi a portarlo sono solo i rikishi, i lottatori di sumo.
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Nell’antico Giappone, i samurai si rasavano la fronte e ripiegavano i lunghi capelli sulla sommità della testa. Tale acconciatura (chonmage) serviva a mantenere stabile l’elmo in battaglia. Oggi il caratteristico ciuffo viene portato solo dai rikishi, i lottatori di sumo

Nel Medio Evo, spesso le donne si rasavano i capelli per esporre maggiormente la fronte. Uno stile molto alla moda era quello di raccogliere i capelli in trecce, fissate ai lati o sulla parte posteriore della testa. Per coprire i capelli in pubblico venivano utilizzati veli, cappelli e alti copricapo.
Nel periodo rinascimentale, si preferivano alte acconciature ornate da cerchietti, gioielli, piume, e pietre preziose. A metà del Seicento, in Francia, Luigi XIV ha introdotto la moda delle parrucche dai lunghi riccioli.

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Parrucche metà '600

Molti artisti hanno immortalato la bellezza e lo stile dei capelli femminili della loro epoca. Questo breve video di Philip Scott Johnson intitolato “500 Years of Female Portraits in Western Art” (2;52) offre una sintetica idea di come è cambiato nel tempo il modo di interpretare e di giocare con i capelli: https://www.youtube.com/watch?v=nUDIoN-_Hxs&app=desktop

Capelli come attributo di differenziazione e protesta sociale

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Tichel ebraico.
Il capo coperto delle donne era segno di virtù
e fedeltà coniugale, secondo quanto prescritto dal codice della modestia ebraico (tzniut), dal cristianesimo paolino e dal Corano.
Il modo di portare e acconciarsi i capelli costituisce un attributo di dismorfismo di genere, decreta l’appartenenza a uno status, gruppo o subcultura, veicola messaggi sociali.
Il capo coperto delle donne era segno di virtù e fedeltà coniugale. Secondo il codice della modestia ebraico (tzniut), le donne sposate devono coprirsi il velo con il tichel. Nella lettera ai Corinzi Corinzi 11:3-10), l’apostolo Paolo sentenzia che la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza dall’uomo, a motivo degli angeli. Nel Corano il velo è un dispositivo di pudore e di protezione del corpo femminile: “O Profeta, di’ alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non molestate. Allah è perdonatore, misericordioso” (33:59).

In molte culture, la prostituta non poteva coprirsi i capelli o, in ogni caso, doveva rendersi visibile indossando speciali copricapo. Nella Roma antica, ella doveva tingersi i capelli con un particolare sapone abrasivo che la rendeva bionda. Poppea, la moglie di Nerone, essendo bionda naturale, veniva chiamata in modo dispregiativo “flava coma”, ovvero “chioma gialla”, inteso come prostituta. Giovenale ci riporta la storia di Messalina, giovane moglie di Claudio che, durante la notte, abbandonava il letto coniugale, indossava una parrucca bionda e si presentava nei postriboli della città (Augusta meretrix). In Francia, un decreto del 1200 induceva invece le prostitute a tingersi i capelli di rosso.

Nell’antica Cina, il codino veniva portato dagli uomini della Manciuria centrale e dai Cinesi Han, durante la dinastia Qing. Al tempo di Confucio (V sec.), gli uomini si facevano crescere i capelli e spesso li legavano come simbolo di pietà filiale. Nel sud, le donne nubili (Yimei) portavano una treccia mentre quelle sposate (Yisa) portavano un ciuffo di capelli annodati nella parte superiore della testa. Secondo una tradizione diffusa in tutto il Paese, le vedove che non volevano sposarsi si tagliavano completamente i capelli.
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Roundheads
Durante la guerra civile inglese (1642 – 1651), i sostenitori di Cromwell venivano chiamati “Roundheads” per via del loro caratteristico taglio di capelli

Durante la guerra civile inglese (1642 – 1651), i sostenitori di Oliver Cromwell venivano chiamati Roundheads, ovvero “teste rotonde” per via del loro caratteristico taglio di capelli.
Il cranio rasato è comune nei corpi militari, nei campi di detenzione e concentramento. Durante la seconda guerra mondiale, le donne accusate di collaborazionismo con il nemico venivano rasate ed esposte alla pubblica vergogna.

I capelli vengono anche esibiti come un baluardo della protesta sociale e della trasgressione agli schemi convenzionali.

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Flapper girls (anni ’20)
Negli anni venti dello scorso secolo, le flapper girls (maschiette o garçonnes) si tagliavano i capelli a caschetto (bobbed hair) in segno di ribellione ai tradizionali ruoli femminili.
Gli Afroamericani portavano i capelli crespi al naturale (tightly coiled hair) come simbolo dell’orgoglio razziale.
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Gruppo di beatnik anni (anni ’60-’70)
Durante le rivoluzioni culturali degli anni sessanta e settanta, i capelli lunghi e sciolti dei beatnik divennero uno dei simboli più riconoscibili della trasgressione e dell’opposizione alle regole, alle istituzioni, alla guerra (del Vietnam). Le femministe degli anni settanta portavano i capelli corti per sfidare il potere maschile.

Verso la metà degli anni settanta, i punk inglesi, assieme a piercing, tatuaggi e borchie, sfoggiano decolorate o variopinte acconciature a cresta di gallo o stile mohicano.
Un’altra subcultura giovanile underground, anch’essa sorta in Gran Bretagna, alla fine degli anni settanta, è quella degli skinheads (teste rasate). Il movimento nasce su base sociale (sottoproletariato), non ideologica o politica come successivamente è stato interpretato.
Tra gli anni ottanta e novanta, negli Stati Uniti si afferma la sottocultura emo, il cui stile (definito anche “scene”) prevede una lunga frangia (bang) asimmetrica, occhi truccati di nero, abbigliamento skater.

I dreadlocks (erroneamente chiamati rasta), mutuati dal rastafarianesimo, movimento religioso principalmente giamaicano, ricordano la criniera del leone simbolo della tribù di Giuda, da cui discende Ras Tafari. Le lunghe chiome aggrovigliate su se stesse sono inscindibilmente legate alla musica reggae, dilagata nel mondo attraverso icone come Bob Marley e The Wailers, e veicolano messaggi di condanna all’oppressione della schiavitù e di speranza in un mondo migliore, ricco d’amore e di diritti per tutti.

I capelli nei mass media

Stampa e televisione hanno da sempre dedicato una particolare attenzione alla bellezza e alla cura dei capelli, elargendo consigli e ricette, proponendo i look più trendy, mostrando in anteprima i cambi di stile del jet set internazionale.
Nel settore pubblicitario, l’indotto proveniente dalla rèclame di migliaia di prodotti e rimedi per capelli (alcuni dei quali spacciati per “miracolistici”) è ingente. Non a caso, gli hair-care products sono i cosmetici più venduti al mondo. Le immagini non si focalizzano tanto sulla confezione o sul tubetto, quanto sul volto di donne e uomini felici e sorridenti perché dalla bellezza dei loro capelli attingono serenità, forza di attrazione, libertà e spensieratezza nei movimenti.

Nel mondo del cinema, molti capelli sono passati alla storia. Ricordiamo il caschetto corto delle attrici dei film muti degli anni Venti, i capelli impomatati di Rodolfo Valentino, che perfettamente impersona la figura del latin lover, i riccioli d’oro di Sherley Temple, le fulve morbide onde di Rita Hayworth, il taglio corto e sbarazzino di Audrey Hepburn nel film “Vacanze Romane” ma anche in “Sabrina”, il biondo platino di Marilyn Monroe, il ciuffo ribelle di James Dean in “Gioventù bruciata”, i look “hippie” e “yuppy” di molte star degli anni Ottanta e Novanta, fino ad arrivare ai giorni nostri dove il panorama cinematografico dei capelli è piuttosto variegato. Non dimentichiamo però le famose “teste calve” che hanno segnato la storia di Hollywood (Yul Brinner, Sean Connery, Bruce Willis, John Malkovich, Woody Harrelson, Howie Mandel) e che hanno fatto della loro calvizie un segno distintivo.
Il film “Hair” (1979), tratto dal fortunato musical rock di Gerome Ragni e James Rado, ben rappresenta la controcultura hippie degli anni settanta del secolo scorso.
Due documentari denunciano lo sfruttamento dei capelli a fini commerciali. Uno è “Hair India” (Italia, 2008), di Raffaele Brunetti e Marco Leopardi. Il filmato riprende il viaggio delle ciocche di capelli offerte in dono in un tempio induista, arrivate in Italia per essere trasformate in extension ed esportate in tutto il modo, fino ad arrivare nuovamente in India, sulla testa di una nota giornalista di moda.

“Good hair” (USA, 2009) di Chris Rock è invece un comedy documentary film centrato sul concetto di “good hair”, che per la black community è sinonimo di capelli che non hanno niente a che fare con il crespo afro. L’attore comico americano focalizza la sua attenzione sui nocivi e ripetuti trattamenti cui le donne afroamericane si sottopongono per avere capelli lisci e perfetti e sul business delle parrucche e “wave”, donate dalle bambine e dalle donne indiane per motivi religiosi e vendute a caro prezzo dall’altra parte del mondo.

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